Lo schwa e l’italiano. Per una lingua viva

C’è un dibattito molto acceso, che riguarda il processo evolutivo della lingua nelle questioni di genere, di cui si parla ormai da diverso tempo.

Il dibattito, che si è fatto ancora più aspro negli ultimi anni, riguarda l’utilizzo dello schwa come soluzione per definire il genere neutro e “risolvere” alcune circostanze poco inclusive.

In particolare: la questione dei nomina agentis, quindi tutti i nomi professionali che usualmente vengono declinati al maschile, l’utilizzo del cosiddetto maschile sovraesteso, quindi l’utilizzo del plurale maschile quando si deve indicare una moltitudine di persone, anche laddove vi sia un solo maschio, ma ancora di più l’utilizzo forzato del genere binario su cui la lingua italiana si basa, quindi maschile o femminile, nei confronti delle persone non binarie, tutte quelle persone, cioè, che non si riconoscono né nel genere maschile né in quello femminile. È una scelta linguistica che si è resa necessaria, negli ultimi anni, e si è evoluta insieme alla trasformazione della società che vede sempre di più la necessità di utilizzare un linguaggio che sia rispettoso della sensibilità dell’altro e quanto più inclusivo possibile.

Cosa vuol dire linguaggio inclusivo

Parlare di lingua e di evoluzione del linguaggio, specie quando di mezzo c’è la grammatica, non è facile. La struttura grammaticale della nostra lingua è abbastanza complessa da suggerire molta cautela laddove si pensi di poterne modificare le regole, ma è pur vero che nel caso dell’introduzione del genere neutro la prudenza non sarebbe così disattesa da stravolgerne totalmente la struttura.

Lo dimostrano i vari tentativi, impiegati perlopiù in modo informale esclusivamente nella forma scritta, dei vari simboli utilizzati in sostituzione della desinenza che contrassegna il genere, per incoraggiare il processo di inclusività anche attraverso un linguaggio equo e non discriminatorio. Simboli come la chiocciola @, l’asterisco *, a volte anche la x o addirittura la u, sono già da molto tempo adoperati per provare a svincolarsi da modi o termini che possano rendere le parole o le frasi discriminatorie o standardizzate nei confronti di qualcuno.

I modi con cui la lingua può diventare poco inclusiva sono davvero molti, pertanto imparare a utilizzare le parole nel modo giusto ci aiuta anche a soffermarci su quello che diciamo e su come lo diciamo, quindi anche a rendere l’inclusività un processo di crescita e di consapevolezza e non solo uno sterile politically correct sulla carta.

Che cos’è lo schwa

Nonostante i vari tentativi impiegati dimostrino quanto l’utilizzo del neutro, con il chiaro scopo di mostrare attenzione e inclusione dell’altro, si presti ad essere adoperato senza troppi traumi o senza troppi stravolgimenti, c’è da dire che i simboli citati sopra hanno confermato nel tempo un limite non indifferente che è quello di non poter essere pronunciati. Continuare ad utilizzarli, pertanto, avrebbe convalidato un processo irrealizzabile, o comunque realizzabile soltanto a metà.

Ecco perché, ad un certo punto, si è pensato che uno dei simboli da sostenere come scelta possibile per evitare troppi stravolgimenti potesse essere lo schwa.

Lo schwa, o scevà, è una piccola e rovesciata, ə. Normalmente non lo troviamo nelle tastiere standard dei pc, mentre i sistemi operativi degli smartphone, Ios e Android, lo hanno introdotto nei nuovi aggiornamenti. Ad ogni modo non si tratta di un simbolo sceso dal cielo. Chi ha iniziato ad utilizzarlo, o a proporne l’utilizzo, non si è inventato nulla, ma lo ha individuato attraverso l’osservazione attenta dei diagrammi vocalici rappresentati dall’AFI – Associazione Fonetica Internazionale (più nota come IPA – International Phonetic Association) che hanno la funzione dell’individuazione di tutte le vocali e della definizione della corretta pronuncia di tutte le lingue utilizzate nel mondo.

 Questo il diagramma dell’IPA che definisce le vocali utilizzate nell’italiano standard

Quello sotto, invece, indica le vocali utilizzate in italiano in rosso, e definisce tutte quelle pronunciabili dal nostro apparato vocale che, come si può osservare, sono molte di più.

In questo diagramma lo schwa si posiziona esattamente al centro.

Perché lo schwa

Il suono dello schwa viene definito da Treccani “un suono vocalico neutro, non arrotondato, senza accento o tono, di scarsa sonorità, spesso, ma non necessariamente, una vocale media-centrale”.

Si emette in maniera molto semplice, senza deformare la bocca e, nonostante in italiano non si trovi in alcuna parola, non risulta impossibile da pronunciare, né tantomeno come un suono completamente sconosciuto. Infatti, oltre ad essere molto presente nella lingua inglese, è molto presente in alcuni dialetti italiani, ad esempio il napoletano, ma anche il ciociaro o il piemontese o, ancora, alcune forme dell’emiliano. Dunque è un suono a cui siamo avvezzi e a cui facilmente potremmo abituarci per un nuovo utilizzo.

Qui si può sentire la pronuncia, cliccando sul simbolo all’interno del diagramma.

La proposta dell’uso dello schwa, come desinenza per introdurre il genere neutro nella lingua italiana, parte nel 2015 dal progetto “Italiano Inclusivo”,  avviato da Luca Boschetto, appassionato di linguistica e di temi legati all’inclusività di genere, in seguito ad alcune considerazioni circa le trasformazioni, concrete e realizzabili, attuate nella lingua inglese per renderla più inclusiva.

Partendo da queste considerazioni, Boschetto si accorge che le modalità adottate fino a quel momento dalla lingua italiana, quindi gli asterischi, le chiocciole, ma anche la x o l’uso della u, non sarebbero mai stati sufficienti per avviare un processo di trasformazione che potesse rendersi davvero attuabile, come stava succedendo nella lingua inglese, ma non solo.

Per questo motivo nasce la proposta, basata sullo schwa (ǝ) e sullo schwa lungo (з) per il plurale, entrambi sia scrivibili che pronunciabili, sia al singolare che al plurale.

La questione, però, si diffonde in maniera più capillare grazie alla linguista Vera Gheno, che inizia ad esprimersi favorevolmente per l’uso dello schwa, sostenendolo anche nel suo libro “Femminili singolari.”oltre che in diversi interventi. In particolare, molta influenza ebbe, nel Luglio 2020, un articolo, dal titolo “Allarmi siam fascistə”, uscito su La Stampa a firma di Mattia Feltri, che fece scatenare sui social un dibattito molto acceso sul tema, in cui anche l’Accademia della Crusca, chiamata in causa, si espose per rimarcare le proprie posizioni.

Mattia Feltri, oltre a portare avanti una serie di banalità per difendere la lingua italiana dal nemico (lo schwa, appunto), e anche una serie di imprecisioni sulla lingua italiana – confonde infatti il maschile sovraesteso con il neutro, che in italiano non esiste – non solo beffeggia le varie proposte esistenti, perché di difficile applicazione, ma attribuisce la soluzione di utilizzare lo schwa a “un’accademica della Crusca” che  – secondo quanto scrive lui – ne avrebbe parlato su Facebook. La accademica in questione, che però accademica non è, è la linguista Vera Gheno. Dunque, Feltri attribuisce alla Gheno un titolo che non le compete, cosa che farà saltare su la Crusca, la quale risponderà con un post su Facebook in cui oltre a sottolineare la completa estraneità della Gheno dal titolo di accademica, metterà nero su bianco la totale estraneità dell’Accademia stessa di un “lasciapassare” nei confronti dell’uso del neutro “(…)come si vede, io non scrivo Accademic*, Accademic@, Accademicǝ o simili, e mi risparmio in questo caso anche la reduplicazione dimaschile e femminile, che reputo tuttavia molto più tollerabile, in quanto meno invasiva rispetto alle precedenti manomissioni grafiche

L’Accademia della Crusca

L’Accademia della Crusca, infatti, rifiuta ancora oggi lo schwa, così come qualunque altra alternativa che possa rappresentare una evoluzione della lingua italiana verso il neutro. In sostanza, questa è la posizione, espressa in un lungo articolo di Paolo d’Achille sul blog del sito

« (…) non si può ridurre il discorso linguistico ad un discorso ideologico: non dobbiamo cercare o pretendere di forzare la lingua – almeno nei suoi usi istituzionali, quelli propri dello standard che si insegna e si apprende a scuola – al servizio di un’ideologia, per quanto buona questa ci possa apparire. L’italiano ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, ma non il neutro, così come, nella categoria grammaticale del numero, distingue il singolare dal plurale, ma non ha il duale, presente in altre lingue, tra cui il greco antico. Dobbiamo serenamente prenderne atto, consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale. Forse, un uso consapevole del maschile plurale come genere grammaticale non marcato, e non come prevaricazione del maschile inteso come sesso biologico (come finora è stato interpretato, e non certo ingiustificatamente), potrebbe risolvere molti problemi, e non soltanto sul piano linguistico. Ma alle parole andrebbero poi accompagnati i fatti». 

Inoltre, pochi giorni dopo la faccenda di Feltri, il Presidente dell’Accademia della Crusca Claudio Marazzini esprime, non senza un velato livore, il proprio dissenso in una lettera di risposta al direttore de La Stampa Massimo Giannini in cui dirà che “La notizia che un’accademica della Crusca si sarebbe pronunciata a favore dell’utilizzo dello schwa e dell’asterisco […] è falsa in tutti i sensi”, non solo perché “la persona con cui Mattia Feltri polemizzava non è affatto accademica della Crusca” e non collabora con  l’Accademia “da parecchio tempo”, ma anche perché “nessun accademico […] ha sostenuto quelle tesi”, ma che, anzi, in più occasioni l’istituzione ha manifestato la stessa linea espressa da Feltri.

Il dibattito sul neutro nelle altre lingue

Quella sull’utilizzo del neutro non è una argomentazione solo italiana. Il dibattito sulla questione linguistica di genere è molto attivo anche in altre lingue.

Per quanto riguarda l’Europa, possiamo identificare tre tipologie di lingue: le genderless languages, ossia prive di genere grammaticale, come ad esempio il finlandese o l’ungherese, le natural gender languages, in cui i sostantivi sono privi di genere grammaticale che è presente, però, nei pronomi, come il danese, lo svedese o l’inglese, e le grammatical gender languages, in cui il binarismo di genere è presente sia nei sostantivi che nei pronomi, come ad esempio il tedesco e la maggior parte delle lingue romanze. Fatta eccezione per il romeno, che ha mantenuto il genere neutro dal latino, le altre lingue romanze – francese, spagnolo, portoghese, italiano, catalano – contemplano solo forme binarie di genere.

Per ognuna di queste tipologie l’approccio alle questioni di genere è differente, e non è detto che laddove ci sia una inclinazione naturale verso una neutralità la questione diventi meno spinosa, a dimostrazione di quanto non sia un dibattito puramente grammaticale, o semiotico se vogliamo, ma soprattutto semantico.

In Ungheria, ad esempio, dove la lingua prevede il genere neutro anche per le persone, la questione dell’inclusività di genere in generale, e non solo linguistica, rimane un concetto poco accettato, che si riflette, per ovvi motivi, anche nell’uso della lingua.

Per fare, invece, alcuni esempi in cui la discussione è molto più aperta, probabilmente anche perché di più facile attuazione, nei paesi anglofoni si discute già da molto tempo sull’adozione del pronome ambigenere they al singolare (e delle forme them, theirtheirs themself/themselves) come pronome inclusivo in alternativa a he/she. L’uso del singular they in senso inclusivo è stata accettata nel 2019 da uno dei più importanti dizionari di lingua inglese, e nel 2020 raccomandata ufficialmente nel Publication Manual of the American Psychological Association, fonte ufficiale dell’APA Style, stile di riferimento per molte pubblicazioni accademiche.

Anche per lo svedese vale la stessa modalità delle lingue anglofone, in cui è stato sufficiente introdurre il pronome hen, versione inclusiva dei pronomi hon (lei) e han (lui), proposto per la prima volta già nel 1966. Nel 2014  hen è stato incluso nel vocabolario ufficiale della lingua svedese pubblicato dalla Svenska Akademien, l’equivalente della nostra Accademia della Crusca.

Lo spagnolo, che come l’italiano prevede il binarismo di genere, ha adottato negli anni gli stessi escamotage adottati in italiano, sostituendo nello scritto le desinenze di genere con simboli come la chiocciola oppure la x, trovandosi quindi di fronte allo stesso problema del come esprimersi nel parlato. Negli ultimi tempi la soluzione che si sta diffondendo è l’uso della –e come desinenza inclusiva (–es al plurale).

Italiano lingua viva o lingua morta?

Secondo l’Accademia della Crusca bisogna prendere atto che la lingua italiana ha due generi grammaticali, il maschile e il femminile, “consci del fatto che sesso biologico e identità di genere sono cose diverse dal genere grammaticale”.

Una posizione molto netta, che ha il sapore dell’imposizione dall’alto e che, a mio avviso, relega la lingua in un perimetro ristretto e del tutto slegato dalle trasformazioni sociali. Una posizione pericolosa, se si pensa che, invece, la lingua non ha mai avuto imposizioni dall’alto proprio in quanto organismo vivo che evolve grazie all’evolvere di chi ne fa uso.

Tra lingua e società c’è un legame strettissimo. Se la società evolve, cambia, si trasforma, la lingua cambia di riflesso, ne rispecchia gli atteggiamenti e diventa uno strumento potentissimo per influenzarli. 

È un legame di scambio reciproco che spesso crea spaccature, distanze, ma anche metodi rinnovati che consentono di mantenere la lingua viva, e una lingua viva è una lingua che parla in maniera comprensibile a tutti.

Il rifiuto dell’uso dello schwa da parte di molti, i quali si accodano in parte alle posizioni di tipo accademico, in parte a posizioni di tipo sociologico, è il chiaro ritratto di una società in cui il concetto di inclusione, in senso generale, trova ancora molte remore.

Ne è dimostrazione palese la petizione lanciata dal linguista Massimo Arcangeli su Change.org un paio di anni fa, dal titolo Lo schwa (ə)? No, grazie. Pro lingua nostra, che ha raggiunto quasi 23.000 firme e che si apre così: «Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d’inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l’italiano a suon di schwa. I promotori dell’ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l’uso della “e” rovesciata” non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche.»

Una presentazione che dice già tutto, sia per il tono inquisitorio utilizzato, sia per il fatto che spaccia per una imposizione “che vorrebbe riformare l’italiano” qualcosa che al momento non è nulla di più di una sperimentazione, attuata soprattutto in modo informale, che prova ad adottare delle soluzioni pratiche per ovviare ad un cambiamento sociale. 

È chiaro che al momento si tratta di una proposta e che come tale presenta molti nodi da sciogliere  – soprattutto di natura più tecnica, come la necessità dell’aggiornamento di programmi di videoscrittura o lettura, oppure altre di più difficile soluzione, come le difficoltà che potrebbero avere le persone dislessiche -,  ma la voglia di sperimentare e di mantenere il dibattito aperto diventa eloquente su quali siano le necessità e i bisogni che spingono i linguisti a interrogarsi e le persone comuni all’utilizzo di forme alternative.

Il dibattito linguistico rimane un argomento importante perché viaggia di pari passo con il dibattito legato alle trasformazioni sociali.  La questione di genere, come costruzione sociale, è un argomento relativamente nuovo che necessita di tempo per essere davvero acquisito e legittimato, ma di fatto è stata ormai sdoganata e per questo non può che trovare sempre più spazio all’interno della società. Pertanto, è scontato che le identità fluide, e quindi non binarie, ormai sempre più riconosciute, sentano l’esigenza sempre più pregnante di essere identificate e di identificarsi in maniera corretta e non in maniera approssimativa. Chi non si identifica con il genere maschile o femminile subisce, in qualche modo, la leggerezza dell’identità stereotipata. L’utilizzo dello schwa, e l’essere in qualche modo costretti a soffermarsi sulla sua applicazione, allarga la prospettiva dell’inclusività, che non è semplice accettazione del “diverso”, ma parità di visione verso tutti. In tal senso, potrebbe diventare una sorta di supporto per acquisire consapevolezza sull’esistenza di un terzo genere, che non è maschile e non è femminile ma è fluido, che viene definito con il neutro ed è pronunciabile grazie allo schwa. Questo non permetterebbe più distinzioni tra normale e anormale, ma metterebbe, come è giusto che sia, tutti sullo stesso piano.

Il timore che lo schwa possa diventare un’imposizione è infondato: la lingua cambia in base all’uso che se ne fa e questo vuol dire che l’uso dello schwa potrà diventare parte della lingua italiana solo quando una buona parte di popolazione lo adotterà.

Tuttavia l’argomento suscita ancora molte reazioni contrarie e ostili, specie per chi ha poca propensione al cambiamento. I conservatori in campo linguistico avvertono ogni cambiamento come un trauma, specie quando ci si trova di fronte a dei neologismi o a termini coniati dai nuovi linguaggi dei giovani che, addirittura, molto spesso vengono considerati la rovina della lingua italiana, quando in realtà sono naturali in una lingua viva.

Paradossalmente, preservare la lingua significa anche, o soprattutto, renderla quanto più possibile viva e per renderla viva è importante che sia compresa da tutti e che possa esprimere la società attuale, compresi i cambiamenti che avvengono con le trasformazioni delle generazioni. Del resto, è un po’ quello che ha fatto Dante quando, contro il mondo accademico che spingeva sull’utilizzo della lingua latina come lingua ufficiale e come lingua preservata per gli ambienti scolastici e per la diffusione della cultura, ha calcato la mano affinché non ci fosse più quel gap tra accademici, persone dotate di cultura e gente del popolo che non poteva permettersi di studiare perché non aveva accessibilità, non conoscendola, alla lingua aulica. E lo ha fatto teorizzando prima una lingua volgare, ma soprattutto mettendo in pratica quello che fino a quel momento aveva solo illustrato, utilizzando il volgare fiorentino per scrivere la sua opera più importante, introducendo termini popolari, dialettali e persino scurrili.

Del resto, è molto importante che si scenda dai piedistalli accademici per stare dentro alla società e partecipare alle trasformazioni che avvengono in maniera tanto veloce quanto pericolosamente distanti da quella cultura che solo se resa accessibile, e alla portata di tutti, potrà continuare ad essere una luce in mezzo al buio che si sta facendo sempre più nero.

Il futuro dello schwa

È ancora troppo presto per immaginare il futuro dello schwa. Probabilmente è destinato a rimanere ancora per molto tempo un elemento ostico e poco accettato, ma il dibattito rimane comunque positivo, perché ci costringe a soffermarci su qualcosa che non può continuare ad essere ignorato o affrontato con superficialità. Il linguaggio inclusivo non riguarda solo le questioni di genere, ma si lega a molte sfere della socialità e può essere utilizzato in svariati modi e non solo con l’uso di sterili simboli. Ci sono veri e propri studi che insegnano ad utilizzare un linguaggio che possa diventare attento all’altro e non è certamente un cavillo tecnico che ci permette di essere più inclusivi, questo credo sia chiaro a tutti. Essere attenti alle parole e imparare ad utilizzarle nel modo corretto può rappresentare, però, un espediente importante per arrivare ad acquisire un nuovo modo di pensare e di agire nei confronti di chi non trova una collocazione entro la quale sentirsi riconosciuto. Un modo per imparare ad essere più attenti a ciò che diciamo, a come lo diciamo, ma soprattutto al nostro interlocutore e all’importanza che le persone hanno rispetto alle nostre opinioni. Dunque un modo per imparare ad essere più aperti e più inclusivi.

Usare una lingua inclusiva diventa importante quanto l’intenzione di esserlo davvero e  in più ambiti, e diventa un ponte tra le persone e i loro bisogni, i loro dubbi, ma soprattutto la necessità di sentirsi parte di una società che li faccia sentire totalmente inclusi.

Del resto, su questo aspetto ci si interroga già da molto tempo, fin da quando, negli anni ’80, la Commissione Nazionale per la parità e le pari opportunità tra donna e uomo affidò alla saggista e linguista Alma Sabatini il compito di migliorare le linee guida rivolte alle scuole e all’editoria scolastica proprio per prospettare l’eliminazione degli stereotipi di genere dal linguaggio.

Era il 1986 e ne Il Sessismo nella lingua italiana si legge:

«Non vi sono dubbi sull’importanza della lingua nella “costruzione sociale della realtà”: attraverso di essa si assimilano molte delle regole sociali indispensabili alla nostra sopravvivenza, attraverso i suoi simboli, i suoi filtri si apprende a vedere il mondo, gli altri, noi stesse/i e a valutarli.»

Dunque, l’inclusività della lingua con l’utilizzo dello schwa, al netto dell’importanza lessicale, diventa pretesto per entrare nel merito di una questione molto più complessa che è l’inclusività in termini più generali.

Un tema spinoso su cui molto ancora c’è da fare e che, viste le critiche negative che mi capita sempre più spesso di leggere sulla possibilità di una nuova forma di linguaggio, mi fa riflettere su quanto, in realtà, la nostra società sia davvero pronta ad essere – e a voler essere – inclusiva.

Sono troppi ancora i giudizi negativi di chi, in virtù di un pensiero conservatore che vede la lingua italiana come intoccabile, ridicolizza, alla maniera italiana – quella che ormai si è diffusa come prevalente e che ricalca le curve dello stadio – questa forma di apertura che, a mio avviso, altro non è se non un modo per convalidare una forma di accettazione vera, autentica, reale.

La temperatura che si percepisce intorno alla questione la si può misurare, come sempre più spesso accade, anche sui social. Tra le persone, così come tra gli studiosi, si sono formate due fazioni: chi pensa che sia una addirittura una cosa posticcia e creata a tavolino e chi, invece, ne comprende l’importanza che va al di là della semplice morfologia linguistica, proprio perché abbraccia altre sfere, altre dimensioni che fanno il paio con la necessità e la voglia di accogliere la causa dell’inclusione in maniera totale.

Come al solito quando si creano delle fazioni l’unica cosa su cui ci si concentra è difendere le proprie posizioni, talvolta con astio e livore nei confronti delle fazioni opposte, senza capacità di ascolto nei confronti di chi, invece, potrebbe farci vedere le cose in maniera diversa. E, a dirla tutta, l’unica cosa che si riesce a scorgere in tutto questo astio è la conferma di quanto, forse, la nostra società non sia ancora pronta ad accettare una visione inclusiva a 360 gradi.  

Emanuela Gioia

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